mercoledì 24 aprile 2013

Capitolo 11 - Stagione 2 (di Nicola Parisi)


20 Ottobre 2013
Santorini, Grecia


La prospettiva di Rosenkreutz è totalmente riempita dalla struttura della Villa, da tre giorni tutti i suoi pensieri sono rivolti alla costruzione prodotto di un opulenza di altri altri tempi.
Tempi che sembrano irrimediabilmente lontani, dal momento che tutto nel complesso che sta osservando: dal giardino incolto fino alle crepe nei muri sembrano voler denunciare un irreversibile decadenza.
Tre giorni a sorvegliare la Villa, il luogo dove convergevano tutti i segnali, tutte le emissioni incontrollate, tre giorni ad aspettare il nulla, soffrendo il caldo afoso dell'isola, interminabili ore senza nemmeno scorgere una luce che si accendesse all'interno, tre giorni senza che nessuno entrasse ed uscisse dal luogo.
Sopratutto tre giorni rovinati dalla forzata compagnia di Angelo.
Per l'ennesima volta Rosenkreutz rimpiange il fresco dei corridoi vaticani.
«Basta adesso! Sono stanco di aspettare. Riproviamo ad entrare!»
Angelo perso nel suo Ipad sembra scuotersi a stento dalla sua indolenza. Con estrema disinvoltura il giovane Super fa almeno lo sforzo di alzarsi :«Il mio potere non funziona lì!» Il dito teso ad indicare la Villa «Non so perché ma qualcosa o qualcuno dentro quella merda di posto, interferisce deviandoci. Quante volte ci abbiamo provato? tre ? Quattro? Non ti è bastata l'ultima volta?
Cavolo! Ancora sento la puzza di quella maledetta porcilaia!»
«La ragazza è lì dentro lo sento. Ascoltami Angelo,  pure io preferirei fare irruzione in quel cazzo di posto con le armi spianata accompagnato da una divisione dell'Entità ,  però  conosci gli ordini: per il momento dobbiamo cercare di tenere un profilo basso. Dai!»  Prova ad addolcire Rosenkreutz  «Sarà l'ultima volta! Se non dovesse funzionare nemmeno stavolta ti prometto che chiamerò rinforzi e tenteremo altre strade.»
Angelo sospira, non lo dice al suo compagno ma dentro di sé non fa altro che chiedersi  come mai certe cose non siano mai capitate ad Harry Potter mentre il Capitano dell'Entità si domanda cosa abbia fatto di male per finire in compagnia del giovane
«Va bene»  si rassegna Angelo «Vieni, solita procedura appoggiami una mano sulla spalla. Così. E speriamo bene. Uno... due...»
. Pensa decisamente Rosenkreutz. Il Vaticano è decisamente lontano.
«Tre!»
Ancora una volta Rosenkreutz si sente risucchiare dal vuoto.

*  *  *

20 Ottobre 2013
Egitto – Deserto occidentale.

Non rimane poi molto del corpo di Heavy Rain dopo la caduta. Un rivolo di sangue ancora esce dal  volto tumefatto del cadavere. Il resto sembra essere stato rivendicato dalla sabbia.
«A quanto pare la stagione delle piogge è finita in anticipo quest'anno.»
Rebel Yell è abituato alla morte, eppure c'è qualcosa nell'espressione di sorpresa congelata nello sguardo di Rain che lo scuote, quasi non si accorge nemmeno del risuonare rabbioso del telefono satellitare.
E ci può essere un unica persona a conoscenza di quel particolare numero.
«Ci aveva visto giusto. La crisi sta colpendo per primo l'Egitto non la Grecia.»
La risposta sembra arrivare da eoni di distanza, la voce che gli risponde tramite l'apparecchio è poco più di un sibilo, a Yell sembra di intercettare come una sorta di musica dal sottofondo.
«Siamo solo l'inizio, mi creda Yell  » risponde la voce «Gli eventi stanno accadendo troppo in fretta. Perfino per me. Si sbrighi ad arrivare al Cairo, se i cloni di Wael cominciano a farsi la guerra tra loro non riusciremo più a fermare  tutto questo casino.»
Rebel per un attimo pensa al Grande Toth, pensa al sé stesso di molti anni prima, non può nemmeno impedirsi di pensare per un solo, breve attimo ad Ammit.
Dei tre è questo il ricordo che gli fa più male.
Dio Mio, quanto ancora dovrò pagare per quell'unico errore?
Rebel sa che in futuro si odierà ancora di più di quanto non faccia già, ma rivolge lo stesso la domanda:
«Lei come sta?»
«La ragazza sta bene»  gli risponde il crepitio lontano «Almeno per il momento. Ora debbo lasciarla, temo di stare per ricevere delle visite.»
Il satellitare rimane muto nelle mani di Yell, per la prima volta da che abbia memoria il Super si sente vecchio.
Vecchio è  stanco.
Dio Mio, quanto ancora dovrò pagare per quell'unico errore?
Per tutto il resto della vita, temo.

Yell si scuote giusto in tempo per accorgersi del sopraggiungere del tramonto.
In lontananza l'immensa nube di fumo proveniente del Cairo non accenna a scomparire.

*  *  *


20 Ottobre 2013
Atene, Grecia

Nel momento in cui la realtà esterna riappare ai suoi occhi, Christian Maria Rosenkreutz è convinto di essere pronto a tutto. Nel momento in cui osserva il  locale dentro cui è spuntato si convince di essersi sbagliato.
Attorno a lui si alzano le urla a metà tra il sorpreso e lo spaventato degli avventori del Bar.
Gli occhi di Rosenkreutz lentamente si abituano allo scintillio delle luci stroboscopiche: le scritte neon alle pareti, i vari poster disseminati per tutto il locale non lasciano spazio al dubbio.
Angelo appare più sconvolto di lui «Mi sa che siamo finiti dentro un Bar per Gay» Il ragazzo tiene gli occhi bassi  mentre attorno a lui una folla di soli uomini fugge  velocemente verso l'uscita calpestando un tappeto di ombrellini rosa da cocktail.
«Adesso comincio veramente a stancarmi! Riportami alla Villa Angelo, a costo di farla bombardare quel posto ora ho realmente voglia di trovarmi faccia a faccia con la persona che mi sta prendendo per il cu...per i fondelli !»
«Aspetta un momento Christian. Visto che ormai siamo qui, cosa ne diresti di farci almeno un Banana Daiqiri prima di andarcene?»

*  *  *

20 Ottobre 2013
Santorini, Grecia

L'eco delle ultime note dell'Adagio di Albinoni si dissolve tra le mura della Villa, dentro la stanza  due uomini si studiano.
«Una musica adatta a queste circostanze, non ritieni?» Sorride Aran Ohana.
«Non saprei» Gli  risponde l'agente che finge di non notare il cassetto dove Aran rinchiude il cellulare utilizzato fino a pochi istanti prima. Così come in precedenza ha finto di non fare caso alla conversazione dell'altro.
Apparentemente l'attenzione di Bannon è rivolta allo schermo del P.C da cui da ore appaiono i servizi che le reti All News  di tutto il globo dedicano alla crisi egiziana: la schermata della BBC si sofferma in maniera quasi ipnotica sulle forme  lisergiche della nube incendiaria, la CNN invece  preferisce soffermarsi sulle urla dei feriti delle baraccopoli cairote, solo il corrispondente della tedesca ARD, rimanda in un continuo loop le inquadrature della figura umana che si muove incolume tra le fiamme color rosso sangue in direzione del palazzo presidenziale.   
Bannon sente il bisogno di distogliere la vista da tutte quelle scene di distruzione. Quando si decide a parlare il suo è quasi un bisbiglio.
«Voglio risposte. Prima quando ci hai trascinato qui dentro hai accennato qualcosa sulla ragazza.»
Con un cenno della testa l'agente indica Valerie, la ragazza  in fondo alla stanza  ha superato la crisi provocatagli dai suoi poteri e adesso sta giocando con Flender.
Con movenze studiate, quasi da attore l'essere che si fa chiamare Aran si siede vicino a lui, un gesto delle mani e l' Adagio viene sostituito da un altra sinfonia.
«Ecco,mi sbagliavo forse l' Arlesienne  è più adatta a questa chiacchierata. Con Bizet si va sempre sul sicuro.»
Le mani intrecciate sul petto Ohana sembra quasi trovare divertente l'irritazione di Bannon, adesso i due uomini sono talmente vicini che  ognuno potrebbe quasi sentire il rumore del respiro dell'altro.
«Risposte  Bannon?  Vedi   questa è una storia complicata: ufficialmente stiamo parlando di  Loxias , della Hypotetical,  o perfino  di quei due buffoni che da giorni stanno cercando di introdursi dentro questa Villa, buffoni, che per inciso, potrò tenere lontani da noi ancora per poco. Ufficialmente c'è perfino una ragazza spaventata e quel tuo ridicolo Protocollo che ti ha imposto di occuparti di lei.»
«E in realtà?»
«In realtà questa è una storia complicata, che come tutte le storie complicate scava che ti scava si rivelano semplici storie di amicizie tradite, di padri, figli e di madri. sopratutto di madri pericolose.
Madri ingombranti  e anche pericolose, aggiungerei .»
«Continuo a non capire.»
«Capirai. Eccome se capirai !»  Aran allarga le braccia al cielo in atteggiamento ieratico, al punto che Bannon comincia a temere di avere a che fare con un matto.
«Vedi, non posso darti tutte le risposte che cerchi, ma  non adesso! Mancano ancora due attori fondamentali alla nostra piccola farsa, presto i due buffoni saranno dentro e allora potremo procedere. Però qualcosa te la posso anticipare già adesso.»
Aran mostra tre dita.
«Come dicevo questa è fondamentalmente una storia di padri e di figli. Ci possono essere diverse tipologie di paternità o maternità: esiste la via che ci indica la natura con i figli naturali  o con quelli adottivi che sono la maggioranza.» Il primo dito viene abbassato. «Poi ci può essere una seconda tipologia: i cloni di un individuo originario,  come  potrebbero esserlo i Canopi o i Girini del Grande Toth, tutti esseri che adesso stanno impazzendo a causa dell'eccesso di stress.»
Per un attimo l'uomo si interrompe, adesso un unico dito resta alzato, da lontano giungono le risate di Valerie. Quando riprende a parlare la voce di Aran Ohana presenta una velatura di tristezza.
«Infine  ci sono i casi più pericolosi: i figli di mostri come Ammit. Naturalmente, anche se lei ancora non lo sa,  parlando della nostra piccola  Valerie Broussard!»
- - -

Capitolo scritto da Nicola Parisi (Nocturnia blog)

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mercoledì 17 aprile 2013

Capitolo 10 - Stagione 2 (di Giordano Efrodini)


20 Ottobre 2013
Egitto – Deserto occidentale.

In un solo istante, Heavy Rain venne spazzato via dal cielo. Precipitando, ebbe solo il tempo di comprendere l’origine sovrannaturale della corrente anomala. L’attimo dopo era già una macchia rossa e scura sulla superficie del Sahara.
Il fenomeno che l’aveva travolto si avvicinò.
«Che sciocco», disse Vayu, col suo inglese di Oxford e l’accento indiano, «sprecare buona parte della sua concentrazione solo per fluttuare». Scosse il capo in segno di biasimo.
L’aveva tenuto d’occhio per un po’, scegliendo il modo migliore per abbatterlo.
Avrebbe potuto risucchiarlo a terra con una tromba d’aria, avvolgerlo con una tempesta di sabbia che l’avrebbe scorticato vivo, far esplodere l’aria direttamente nei suoi polmoni eccetera eccetera. Poi si era stancato di quel gioco e aveva deciso per un colpo rapido e misericordioso.
In fondo proveniva da una buona famiglia, da una casta privilegiata che gli aveva consentito di studiare nelle migliori scuole. Non era un barbaro, lui.
Soddisfatto di se stesso, si levò nel cielo – ora libero – radunando una tempesta di sabbia, e con questa volò verso Il Cairo.

Egitto, Il Cairo
Le Baraccopoli.

Agni passeggiava tra i vicoli sporchi e squallidi, osservando i volti dei miserabili. Ognuno di loro poneva le sue ultime speranze in quella nuova menzogna, la promessa di un potere eretico e deviato.  Non la pura essenza con la quale la Dea lo aveva benedetto, ma volgari artifizi di una goffa scienza umana.
La Città dei Disperati, come aveva preso a chiamarla tra sé, gli ricordava i suoi compatrioti più sfortunati, l’umile casta dalla quale si era innalzato come un dio per grazia di Ammit. Tuttavia, questi ignari infedeli erano lì per servire Toth, abbeverarsi al suo potere bugiardo e asservirsi alla sua volontà. Per quanto non provasse alcun piacere nell’apprestarsi a quel particolare incarico, dovevano essere purificati.
Chiuse gli occhi, dedicò una breve ma sentita preghiera per le loro successive incarnazioni, dopodiché recitò il mantra: «Jai mata Kali, jai mata Ammit. Kali Ammite, namo namah».
Sull’ultima sillaba le fiamme lo avvolsero e i bassifondi esplosero.

I Lokapāla, i Guardiani del Mondo, erano su suolo egiziano. Ram Dao li aveva scelti personalmente, la sua élite tra i Figli di Ammit. Due di loro erano già all’opera, iniziando la Vendetta della Dea.

***

17 Ottobre 2013
Glifada, Atene.

Il Grande Toth se ne stava. Beh. Ovunque.
Seduto davanti a un computer al Cairo. Spacciandosi per Senatore a Washington. Dietro una scrivania di Bruxelles a sbrigare scartoffie per Fortress Europe. A Francoforte, raccogliendo informazioni alla BCE. Uscendo da un bar di Glifada… e in migliaia di altri posti.

Quest’ultimo Canopo, come molti altri, si poneva sempre la stessa domanda.
Io sono Wael Ghaly, il Presidente Egiziano, il Grande Toth. Come mi sono ridotto a diventare il galoppino di me stesso?

Una volta era quello che gli americani chiamano – nel loro modo colorito – The Big Boss, e i Canopi erano i suoi servi fedeli. Ubbidienti a ogni comando, svolgevano ogni mansione gli venisse assegnata, persino morire tra le braccia di Isabelle.
Ora il confine era più labile. Quasi inesistente.
Il Grande Toth, quello vero, era un simbolo e una reliquia, l’immagine dietro la quale si nascondeva la sua natura multipla. L’originale veniva conservato come un cimelio – la mummia del faraone – in un sotterraneo del palazzo.
Mi hanno messo in cantina”, rifletté amaramente. “Anzi, mi ci sono messo da solo”.
Per l’ambizioso Wael, il “regalo” di Isabelle era stato un dono irresistibile, ma questo potere gli stava costando caro.
Ogni clone, ogni Wael, aveva ereditato la sua ambizione, ma ora si trovavano a svolgere compiti secondari, alcuni dei quali avvilenti per il loro ingombrante Ego. In più, nonostante il potere fosse cresciuto, la sua mente… “Le nostre menti”, dovette ripetere a se stesso per l’ennesima volta, non erano progettate né si erano evolute per gestire una tale interconnessione. Non era un telepate e non avrebbe mai posseduto quel talento.
Ogni informazione condivisa da un Canopo – importante o meno che fosse, come un dato finanziario o il fondo schiena di una stagista – poteva distrarre gli altri dai loro singoli compiti, perciò doveva ovviare al pericolo con una costante e faticosa disciplina.
Momenti come questo – ormai sempre più frequenti – in cui si ritrovava a riflettere sul problema, lo portavano all’unica conclusione possibile: i Canopi erano troppi, per riprendere il controllo dovevano essere decimati.
Cospirare contro se stesso metteva sempre i cloni in allarme. Ognuno di loro era Wael, e Wael voleva vivere.
Questo conflitto interno era responsabile di un ricorrente punto cieco nella sua privilegiata visione di massa, un Tallone d’Achille che un giorno o l’altro gli sarebbe potuto essere fatale.
Per di più, non tutti i cloni erano dello stesso avviso.
Vivere vite separate con esperienze diverse stava creando un’incrinatura tra le varie componenti della sua personalità, introducendo una pericolosa individualità nella somma delle sue parti.
Senza rendersene neppure conto, il Grande Toth stava impazzendo.

Al momento però – quel particolare Wael – se ne stava seduto all’ombra fuori dal bar, dove non gli restava che aspettare Clark, nella speranza che avesse colto i suoi cenni e lo raggiungesse. Non voleva che Sibir lo notasse, proprio no.
Sì, era davvero il galoppino di se stesso.

***


20 Ottobre 2013.
Egitto, Il Cairo.

L’incendio si stava muovendo come una cosa viva, eccolo incamminarsi dalle baraccopoli dov’era nato verso la città vera e propria, lambirne gli edifici, avvolgerli e abbatterli.
Un giornalista della CNN mise da parte il servizio sui Girini del Presidente e documentò la notizia.
«Come vedete, le fiamme sembrano avere una precisa volontà. Si sospetta l’attività di un Super sconosciuto! Non sappiamo chi sia ma… ecco! Ecco! Avete visto? Le fiamme hanno avvolto quell’edificio che è subito esploso! Il Cairo è sotto attacco! Ripeto, Il Cairo… oh mio Dio, e quello cos’è?» La telecamera ruotò rapidamente nella direzione indicata.
Il cielo verso occidente si era fatto scuro come se una nube innaturale lo avesse coperto, mentre il Nilo, tra le sabbie portate dalla tempesta e i riflessi degli incendi, si tingeva di rosso. La ripresa venne rimbalzata da tutti i media, facendo istantaneamente il giro del globo.

Al centro della tempesta, la forma di Vayu era appena visibile. Sicuro di aver finalmente attirato l’attenzione desiderata, eseguì gli ordini di Ram Dao. Aumentò la sua concentrazione dando alla tempesta la forma bestiale di Ammit, palesando la volontà della Dea.

Vedendo il segnale concordato, Agni spense le fiamme che lo avvolgevano, lasciò che il fuoco da lui appiccato terminasse il suo lavoro per le strade, e si diresse verso il Palazzo del Grande Toth. Nessuno lo avrebbe notato, un uomo tra gli uomini, in fuga come tutti gli altri.

Egitto, Cairo
Palazzo del Grande Toth.

I Canopi erano come impazziti. Gridavano ordini al telefono per disporre tutte le forze dell’ordine. Cercavano informazioni su quello che li aveva colpiti. Biasimavano se stessi per non aver previsto l’attacco, e quando non era sufficiente s’incolpavano l’un l’altro. Il Caos era piombato su di loro. Persino il Wael originale, nel suo sarcofago acquatico, si lasciò sfuggire tre bolle simili a un’imprecazione.
Un solo pensiero attraversava la mente di tutti i cloni.
Il nostro Tallone d’Achille sta in fine sanguinando”.
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Capitolo scritto da Giordano Efrodini (Giudappeso blog)

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mercoledì 10 aprile 2013

Capitolo 9 - Stagione 2 (di Salomon Xeno)


13 Ottobre 2013
Calcutta

L'aria puzzava di zolfo e Jackson non aveva la minima idea di dove l'avevano portato. Prima l'allarme, poi l'illuminazione era saltata. Non che prima stesse meglio, nelle grinfie di quella psicopatica. Ricominciò pazientemente a lavorare i legacci.
Da oltre la porta provenirono delle grida e uno schianto. Arrivano i nostri! Fece forza sugli avanbracci, tirando con tutta la forza che aveva, che non era poi molta. Non rivedrò più il sedere di Tabitha...
Improvvisamente qualcuno sfondò la porta e ci fu una colluttazione a pochi passi dal lettino. Scorse solo dei guizzi violacei, un uomo incappucciato e la luce riflessa nel suo coltellaccio. Figli di Ammit. Stronzi. La luce si perse fuori dal suo campo visivo, e alla fine ci fu un grido strozzato e passi felpati che uscirono dallo stanzino.
Poco dopo qualcun altro entrò e tagliò i legacci, tirandolo su. Jackson si trovò a fissare due iridi rosse.
«Dottor Jackson. Livello di Teleforce sotto scala. È un piacere rivederla intero.»
«Non vedo un accidenti!»
Una pallida luminescenza emanata dal corpo robotico illuminò il golem, il tocco di Tabitha.
«La squadra di recupero è impegnata al primo livello, ma non può resistere a lungo. Dobbiamo raggiungere subito il team leader.»
Jackson abbracciò il golem.

17 Ottobre 2013
Glifada, Atene

Clark controllò l'orologio, con fare annoiato. Si stava godendo il locale. Non era stato facile, tra la disco e i laser dello showbiz, scovare questo locale. L'insegna a neon era il massimo di modernità che sopportava. I neon e il jazz, perché la sua cultura musicale si era fermata a John Coltrane. Se fosse riuscito a vendere al prezzo giusto, avrebbe aperto un locale di questo tipo. Magari in Mordovia, di fianco al ristorante di Depardieu. Già intravvedeva una rimpatriata hollywoodiana!
Con un gesto della mano chiamò barman, ordinando un Balabala. Come diceva quel suo amico italiano? Paese che vai...
C'era un uomo al bancone. Un impiegato sulla cinquantina in cerca d'avventura. O forse... Lo lasciò al suo Alexander.
Con l'altra mano sfogliò il quotidiano abbandonato. Era perlopiù roba vecchia: il mondo era più veloce delle notizie. E più assurdo. Morti viventi, attentati pirotecnici e una città scomparsa, Sesto Poggese. Bande di Super, mezzi-Super e Girini stavano dietro a molti di questi eventi, solo alcuni dei quali al servizio dei governi.
Per un prezzo accettabile, da quella sera avrebbe avuto due nemici di prim'ordine: l'odiato Kedives e Fortress Europe, da cui già non era particolarmente amato.
Un cameriere gli portò il Balabala, esigendo il saldo in euro.
L'uomo al bancone lo stava tenendo d'occhio, nascondendosi ogni volta che Clark distoglieva lo sguardo. Di certo non era lì per bere, non avendo neppure toccato il cocktail. Poco discreto per un agente di Fortress Europe. Troppo poco fuori luogo per un Super. Eppure, qualcosa nel modo in cui faceva ondeggiare il bicchiere gli ricordava qualcuno di conosciuto.
Distolse nuovamente lo sguardo, sorseggiando il suo cocktail. Si chiese cosa avrebbe ordinato la ragazza.

13 Ottobre 2013
Calcutta

«La prego di non considerare il contatto fisico una consuetudine accettabile.»
«Scusami, Sniper. È solo che sono felice di essere vivo!»
Il golem non fece cenno di contentezza. Non provava emozioni, perché così li avevano progettati. Era una macchina da guerra, precisa e letale. Era sciocco abbracciarlo... ma lo era anche attaddarsi nel covo del nemico, dove  quella pazza schizoide l'avrebbero ridotto a un torsolo, per cui decise di muoversi.
«Va bene, andiamo» disse. «Dove andiamo?»
«L'ingresso principale è impraticabile. Si metta questi e mi segua.»
Quando ha appreso il senso dell'umorismo?
Jackson calzò il visore, regolandolo a due terzi. La stanza era più piccola della precedente, ma ampia abbastanza da ospitare il lettino, un tavolo da lavoro e due cadaveri incappucciati. Gli sfortunati Figli di Ammit.
«Non si può fare a meno di questo odore? Perché lo zolfo?»
«Confonde il nemico. Dottore, agganci anche la mascherina. Avrà qualche difficoltà a parlare, ma le assicuro che non ne sentirà l'esigenza.»
Il golem si orientava senza esitazione all'interno di quel labirinto notturno. Incontrarono altri cadaveri, alcuni con tagli profondi ma senza perdita di sangue. La maggior parte, si accorse, erano semplicemente storditi.
«Sniper, devo riferire al NIMBUS.»
«Riagganci la mascherina, dottor Jackson. L'aria è sporca.»
Si fermarono in mezzo a un corridoio anonimo. Lì un uomo li stava aspettando. Indossava un completo d'affari scuro, ma era a piedi nudi e reggeva in una mano il fodero di una katana. In testa portava un visore identico al suo.
«Va bene» disse Jackson. «Quei tizi sono delle pedine, ma Kareema Gupta è molto più forte. Come andiamo via da questo posto?»
Il samurai indicò con un cenno. Jackson si avvicinò, sbirciando al di là della porta. Un istante dopo indietreggiò, disgustato.
«È fuori discussione! Musashi, non può aprirsi una strada con la katana? Che se ne fa della katana
«Lo scopo ultimo delle arti marziali è non doverle impiegare. Come ha detto lei stesso, non è ancora il tempo di duellare con la padrona di casa. Siccome sono parole sagge la informo che ho dato l'ordine di ritirata, per cui non ci verrà molto prima che ci individuino. Dopo di lei, dottore.»
A Jackson tremavano le gambe, tuttavia si fece forza e varcò nuovamente la soglia. Non prima di essersi assicurato la mascherina.

17 Ottobre 2013
Glifada, Atene

La ragazza lasciò tutti a bocca aperta. Una pupattola di prima classe, alta almeno 1.80 e biondissima: una bellezza glaciale in quel posto così terribilmente mediterraneo.
«Buonasera» disse, in inglese impeccabile. «Lei deve essere...»
«Sono io» disse Clark, alzandosi per farla accomodare. Non era ancora così vecchio da dimenticare le buone maniere. «Il compagno Gennadi non la ha accompagnata?»
«Tovarish Kisurin aveva un impegno. Un Gin Lemon» disse al cameriere, facendo intendere che era tutta la conversazione che le avrebbe strappato. Sibir era una donna come non se ne vedevano dagli anni cinquanta, parola sua. Ancora una volta, si stupì di come bastasse un bel faccino e una camicetta semitrasparente a nascondere una delle più famose Super al mondo.
«Alla nostra collaborazione» brindarono.
A quel punto l'uomo al bancone si alzò, senza aver toccato il suo Alexander. Si girò sulla soglia, subito prima di uscire dal locale. E ammiccò a Clark, appoggiando il pollice appena sotto lo zigomo come un segnale rivolto a lui.
E in quel momento si rese conto di chi aveva davanti.
«Ghaly?» mormorò.
«Pardon?»
La ragazza era furba. Ma non aveva fatto tempo ad accorgersi dello scambio. Clark simulò uno dei suoi sorrisi più affascinanti.
«Niente, pupa. Un pensiero fugace. Mi è appena venuto in mente che sono ancora in grado di alzare la posta!»

14 Ottobre 2013
Kidderpore Dock, Calcutta

Era un miracolo che fosse ancora vivo. Era un quadretto patetico: aiutato da un robot e da un giapponese alto la metà di lui, era uscito a stento dalle acque dello Hughli. Se non fosse arrivato a un passo dall'affogamento, avrebbe riso.
«Gli induisti sono soliti praticare abluzioni spirituali nelle acque del Gange. Credo che dopo le fognature, ne avessimo bisogno.»
Dove ha imparato tutte queste cose? Intorno a Sniper si erano radunati anche due nuovi modelli di classe Evron. Sulla loro corazza notò scalfiture e abrasioni, ma nel complesso avevano retto bene. Un terzo golem era stato distrutto da uno scontro diretto con Ram Dao, durante la ritirata.
La squadra si era rifugiata in un vecchio magazzino, dove erano state nascoste le attrezzature e un cambio d'abito. Tra ferraglia, scheletri di barche e paratie ridotte a rottami, Musashi lo informò della situazione: «Il canale con la base non è affidabile. È così che l'hanno catturata e non possiamo permetterci che le informazioni restino qui in India.»
«Quali opzioni abbiamo?»
«Qui vicino c'è una stazione di polizia...» Certo, come se potessimo presentarci e denunciare il folle piano di Kareema Gupta, delle attività non autorizzate NIMBUS e di CLOUD... «Oppure possiamo seguire il piano di rientro.»
«Piano di rientro?»
«Il suo era un volo per Los Angeles, poi Calgary. I robot, lei capisce, non possiamo imbarcarli su un volo di linea. Abbiamo un contatto, un contrabbandiere bengalese. Possiamo arrivare quasi in Europa.»
«In Europa?» eruppe Jackson. Il samurai gli faceva perdere tempo. «Ma lo sai dov'è il Canada, almeno?»
«Quasi in Europa. Se la sua posizione non fosse ormai compromessa, le consiglierei recarsi in risciò fino all'aeroporto.»
Jackson abbassò la testa, mettendosi le mani fra i capelli. Eccomi precipitato in un'altra epoca. Quanto darei per un volo per Calgary! Quando alzò gli occhi, il giapponese era ancora lì a fissarlo con placida accondiscendenza, ma Jackson sapeva che non c'era scampo.
«Va bene» sfiatò. «Quanto vicino all'Europa dobbiamo andare?»
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Capitolo scritto da Salomon Xeno (Argonauta Xeno blog)

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mercoledì 3 aprile 2013

Capitolo 8 - Stagione 2 (di Massimo Mazzoni)


2 Ottobre 2013
Cabo rojo, Playa Sucia,
Portorico

«Ciao Eric, ti ho sentito, vieni pure avanti, quale buon vento ti porta qui?»
L'uomo era seduto su una poltrona di vimini con un grande schienale rotondo che nascondeva tutta la persona, tranne i piedi, bianchi immacolati.
«Vento cattivo...» disse una voce amplificata.
Eric si avvicinò e urtò qualcosa a terra: era un anfibio, slacciato, l'altro era caduto di sotto dal patio di legno, nella sabbia.
«Attento a non ammaccarti l'armatura nuova!»
Si appoggiò alla balaustra e osservò il mare azzurro, che diventava trasparente in prossimità della spiaggia, bianca da abbagliare.
Si trovavano in una piccola baia, chiusa da due propaggini di terra ricca di vegetazione, sulla destra un basso promontorio con un faro.
Chiuse gli occhi: i microfoni gli rimandarono la risacca delle onde, placida, rilassante.
«Come ti trovi qui?»
«Non lo senti?»
Eric si voltò, la sua maschera trasparente rifletteva i raggi obliqui del tramonto.
«Ah, sei isolato lì dentro, scusa.»
«Non ti preoccupare, e comunque ho l'aria condizionata.»
Una debole risata dell'altro, che poi aggiunse: «Mi trovo bene dai, lo sai come si chiama la spiaggia?»
L'altro scosse il casco a destra e a sinistra.
«Playa sucia, cioè spiaggia sporca, mi piace razzolarci.»
«Non ne dubito.»
Alcuni gabbiani passarono stridendo a pelo d'acqua, evitando i pochi bagnanti che ancora si attardavano prima dell'aperitivo.
«Non ci siamo più visti... Da Aprile.»
L'uomo posò sul tavolino basso un bicchiere con del liquido rosso sul fondo e una fetta di lime come guarnizione.
«Già, come stai? Ti sei ripreso?» Poi aggiunse, rivolto a un cameriere: «Un altro Planter's Punch, por favor.»
«Io sto bene, ma non mi sembra lo stesso, per te, non hai combinato niente da allora, a parte gli incontri clandestini.»
Una risata cristallina.
«Non è un bel modo di ringraziarmi per averti salvato la vita, quello di venirmi a fare le prediche! E poi ultimamente la boxe serve a sfogarmi.»
«Non sono venuto per ringraziarti, ma per chiederti un favore.»
L'altro finì il suo drink e lo lasciò al cameriere, che gliene diede un altro uguale.
«Sentiamo, Super irriconoscente.» disse, buttando giù un lungo sorso.
«Hai sentito della Grecia?»
«Ah, allora non è un favore, è un'ordine dello START!»
«Abbiamo bisogno anche di te!»
«Senza Matt è dura, eh?»
«Non fare così.»
«Così come? Sto facendo qualche osservazione, dai, continua, prova a convincermi.»
***

Due ore dopo.

L'uomo si fermò davanti  al letto sfatto: tra le lenzuola scatole di pizza, tovaglioli e magliette con le gore sotto le ascelle.
Vi lasciò cadere sopra la sacca dell'Adidas e prese a ficcarci dentro indumenti appallottolati e sacchetti chiusi con lo scotch; poi soppesò un fagotto di velluto nero.
Lo aprì, rivelando un tirapugni cromato e una lunga catena che terminava con una stella rossa, premette il suo centro e cinque rasoi affusolati  scattarono fuori dalle cinque punte.
Soddisfatto, toccò di nuovo il meccanismo per nascondere le lame e mise il fagotto in una tasca interna della borsa.
Guardò l'orologio da polso.
Aprì la cassettiera: la felpa era piena di strappi, bruciature, macchie scure sulle parti rosse.
Buttò l'indumento sul letto, accanto alla borsa.
Prese un cellulare satellitare e fece una chiamata.
«Gioventù in azione, sezione di Calgary.»
«Devo parlare con lei, sono Alex.»
«Chi desidera, prego?»
«So del progetto, devo parlare con la Dottoressa Angela Solheim.»
Alcuni secondi di esitazione nella voce squillante dall'altra parte.
«Mi spiace ma ha sbagliato numero, qui non lavora nessuna...»
«Va bene, dica alla dottoressa che non lavora da voi che sto andando in Grecia, parto tra un'ora, lei sa come raggiungermi, se vuole.»
«Ma cosa...»
Spense il cellulare e se lo ficcò in tasca.
Andò all'armadio e prese una sacca da vestiti appesa a una gruccia.
L'aprì sul letto, un fazzoletto appallottolato cadde sulla moquette, la punta di un preservativo uscì dalla carta.
Era una tuta di gomma nera, con cappuccio,  sul davanti una decorazione in rilievo rossa, lucida, semirigida.
Vi picchiò le nocche, sembrava plastica ma era mille volte più resistente.
Era la parte superiore di uno scheletro.
Guardò la tuta rovinata, sospirò e cercò di piegare quella nuova per metterla nella borsa.
***

20 Ottobre 2013 - ore 23.30
Centro Ricerche della Hypotetical Inc.
Agia Paraskevi – Atene
Grecia

Stakanov sentì che lei era entrata in azione quando gli giunse il tipico scrocchiare di sedano di un'articolazione slogata, forse quella di un collo.
Poi due colpi rapidi, il clangore di un'arma che cadeva a terra, seguito dal rimbombo di un corpo che colpiva qualcosa, infine il sibilo gorgogliante dell'aria che usciva dai polmoni.
Li fa a pezzi!
Un fruscio prolungato poi ecco il blip della serratura magnetica che si apriva.
Stakanov si alzò dal riparo e corse verso il basso edificio di cemento, cercò di evitare le telecamere, passando vicino ai corpi dei due sorveglianti, probabilmente messi lì proprio per non essere visti.
Sentì i passi rapidi di lei, difficili da percepire singolarmente, che sembravano un unico suono, ritmico.
«Non così in fretta, giovane!»
Era una voce maschile, baritonale.
Quasi contemporaneamente sentì una scarica elettrostatica, poi un crepitio prolungato.
Yobanji, questo è un altro Super!
«Starcrusher?!» disse la ragazza.
Sfiorando il muro percorse un corridoio in ombra e arrivò a delle scale che scendevano giù.
«Miss Liberty, lei è appena entrata in un’area non autorizzata. Devo pregarla di allontanarsi immediatamente.» disse la voce maschile.
Le scariche elettriche erano vicine, ormai.
E infatti ne vide una, che avvolgeva come un serpente viola la balaustra delle scale, accanto a Libby.
La Super indossava una tutina di spandex nera, con inserti grigi e Stakanov non poté fare a meno di osservarla, ammirato.
Poi un improvviso senso di colpa per quello che era stato American Dream, lo fece desistere.
L'altro era un uomo di colore con un completo chiaro, estivo, continui flussi di energia viola partivano e ritornavano crepitando dal suo corpo.
Non è Starcrusher.
«Fossi in te mi leverei dai piedi. Non ti hanno insegnato che giocare con l’elettricità può essere pericoloso, girino?»
Nello stesso momento in cui Libby accennò a muoversi una scarica si staccò dalla ringhiera e la colpì sfrigolando al fianco.
Una propaggine si avvicinò a Stakanov, che si nascose dietro l'angolo della parete.
«Fossi in te non sarei così spavalda, come vedi noi girini ci sappiamo difendere.»
Intervengo?
Fece un passo poi si bloccò, in ascolto.
Percepì lo stridere delle suole di gomma sul pavimento, poi un urto ovattato che fece tremare la ringhiera e sussultare leggermente il pavimento.
Meglio di no.
Il crepitare delle scariche si attutì di colpo e poi diventò quasi impercettibile, prima di scomparire, sovrastato da altri rumori: uno scricchiolio di ossa spezzate e una rapidissima serie, quasi ininterrotta di colpi che sembravano lo scalpiccio di un bambino che giocava nel fango.
Yobanji!
Stakanov si gettò per le scale e sul pianerottolo c'era Libby, inginocchiata sul falso Starcrusher.
Gli mancava parte della testa.
«Mio Dio, cosa mi sta succedendo?» disse, cercando di pulirsi una poltiglia rossiccia dalle mani guantate .
«Già, che macello...»
Lei si voltò e in un attimo quelle mani luride erano attorno alla sua gola.
«S, sono dello...dello Stttart! Fe...ferma!»
Stakanov si divincolò e si liberò, proprio quando pensava di soffocare.
Dette un paio di colpi di tosse, piegato in due.
«Sei Stakanov? Quello di Admiral City?» chiese lei, pulendosi col fazzoletto tolto dal taschino del cadavere.
«Forse ancora per poco.»
«Scusami.» E gli porse il foulard.
«Non ti preoccupare, ultimamente succede anche a me...»
«Sei uno dei rimpiazzi?»
«Una specie di consulente esterno temporaneo»
Estrasse da una tasca della tuta da scheletro una sim e la porse all'altra, che la mise in un lettore inserito negli occhiali.
Dopo alcuni istanti annuì, si mise il visore sui capelli e lo scrutò con un sopracciglio alzato: «Dunque eri tu che mi seguivi, in questi giorni.»
«Sono stato discreto, dai.»
«E questo è il tuo famoso modo di ballare? Ti fai mettere le mani addosso dalla prima Super che passa?»
«Beh, solo se è simpatica come te e poi, mia cara, conosco anche balli più piacevoli di questo.»
Gli occhi verdi di lei scintillarono nella penombra.
«Non so se con me saresti al sicuro, tovarish Stakanov.»
Non se la tira più? La missione si fa interessante, come aveva detto Eric.
Libby controllò le tasche dell'abito di lino del super massacrato.
«Questo lo conoscevi, per caso?»
«No, ma aveva i poteri di Starcrusher.»
«Hanno già iniziato ad impiegarli, maledizione!»
Recuperò un tesserino magnetico, poi si voltò e tornò in ipervelocità, lasciando una scia scura, mentre giungeva in un attimo in fondo alle sei rampe di scale.
«Aspetta!»
Libby sussurrò, mentre passava la scheda nel lettore della porta blindata: «Probabilmente tra meno di dieci secondi suonerà l'allarme, non ho tempo di farti da badante, ci vediamo nel laboratorio!»
«Dobbiamo solo sabotare il progetto di Grant, niente questioni personali.»
«Sei qui per questo, no?»
Poi una interferenza ad alta frequenza sovrastò le ultime parole di Libby, che rientrò in ipervelocità
Forse non sarà così interessante, la missione.
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Capitolo scritto da Massimo Mazzoni (Cose Morte blog)


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Impaginazione a cura di eBookAndBook
Grafica a cura di Giordano Efrodini